pubblicata su Continuum, Giornale di informazione e di cultura musicale a cura della Scuola di Musica Giuseppe Bonamici.

Prima parte: anno 1 – Numero 4 (Marzo/Aprile 2004); seconda parte: anno 1 – Numero 5 (Maggio/Giugno 2004)

CONTINUUM: Da quanto tempo ti occupi di musica “contemporanea”? E cosa intendi esattamente con questo termine, dal punto di vista musicale, formale, estetico?Continuum

CARLO DERI: Ho cominciato a studiare seriamente musica solo molto tardi, in età universitaria, dopo una serie di esperienze un po’ casuali fatte da ragazzo. Quando sono partito con gli studi pianistici, che ho concluso in molto meno dei dieci anni canonici (dopo dodici mesi dall’inizio dello studio sono stato già in grado di sostenere l’esame del quint’anno), ero già quindi in un’età nella quale ci si domandano parecchie cose e l’idea di comporre mi era venuta insieme al prorompente bisogno di suonare. Ho cominciato gli studi di Armonia e Contrappunto dopo un anno di pianoforte ed è stata un’esperienza totalizzante e appagante. Per me è stato fondamentale l’incontro con il mio maestro di Composizione, Carlo Prosperi, che oltre a darmi le cognizioni tecniche per le quali sento ancora nei suoi confronti un profondo senso di affetto e gratitudine, mi ha educato ad una visione morale, quasi religiosa dell’Arte, che non ammette compromessi sul piano etico. Quindi le problematiche della creazione musicale – sia in senso tecnico che estetico, filosofico – le ho affrontate quasi contemporaneamente a quelle dell’esecuzione e dell’interpretazione.
Ricordo che all’inizio – un po’ ingenuamente – il problema della modernità, lo confesso, me lo ponevo. Mi domandavo: “sarà abbastanza attuale quest’effetto, questa melodia, quest’accordo? Non cadrò nel già sentito?” Oddio, a dire il vero questo mi accadeva solo per i primi momenti e poi andavo dove mi portava la fantasia, ma insomma, la domanda me la facevo. Oggi naturalmente tutto questo è solo un ricordo: quando compongo mi sento veramente libero; quel che viene fuori – o meglio, ciò che rimane dopo il lavoro di scrematura – vuol dire che è proprio “Carlo Deri”, per quanto a volte possa quasi suonare strano un po’ anche me!
Che cosa intendo per musica contemporanea, mi chiedi… Credo che questa domanda posta a cento compositori diversi dia altrettante risposte. E questo per le motivazioni più disparate, da quelle puramente estetiche, fino ad arrivare a quelle meramente psicologiche: per qualcuno sentirsi d’avanguardia è gratificante, dà addirittura un senso di benessere!
Rispondere a questa domanda è difficile, quanto definire con una semplice etichetta la musica d’arte della tradizione europea (…e anche questa locuzione è carente, non trovi?). È veramente curioso osservare come tutto ciò che ruota intorno a questa sfera dell’arte musicale sia di difficile definizione. Quando si dice Jazz o Rock o Musica leggera, anche se a ben vedere i confini fra un genere e l’altro non sono mai così ben chiari, più o meno si usano comunque etichette abbastanza esaurienti (con tutti i limiti che può avere un’etichetta, naturalmente). Ma una musica che abbracci Palestrina, Bach, Mozart, Chopin, Debussy, Stravinskij, Berio, come la vogliamo chiamare? Musica classica? Ma questa è una definizione che va bene per le riviste divulgative o per gli scomparti nei negozi di dischi, non può essere presa seriamente in considerazione. Lo stile classico è sì importante – c’è da dirlo? Comprende i nomi di Haydn, Mozart e Beethoven… – ma in nessun caso si può con una parte definire il tutto… E come stride il termine quando si sente dire: musica classica contemporanea! Peggio che mai la definizione che s’incontra nel linguaggio giuridico: Musica colta, quasi che le altre espressioni musicali non fossero frutto di una cultura!
La questione al di là degli aspetti puramente nominali che se estremizzati hanno poco senso, dà da pensare e porta naturalmente a riflettere sulla complessità della cosa in sé. Insomma questa nostra arte è un’entità talmente imponente, importante, grandiosa che nemmeno in una lingua ricca come l’Italiano si riesce a trovare un termine, una formula che l’esprima convenientemente.
Certo che poi ognuno deve farsi un’immagine pratica per definire un fenomeno e così io finisco per pensare alla musica contemporanea come ad un genere nel quale i legami dati da regole universalmente accettate sono molto allentati, una musica nella quale c’è molta libertà perché è quella del momento attuale, dell’oggi. Ed è quindi il regno del possibile.

C: Molti insegnanti e musicisti parlano ancora di musica “moderna” riferendosi agli inizi del ’900… Può dirsi “contemporanea” la musica di 50, 60 anni fa?

CD: No, ma nemmeno la musica degli anni Settanta, bada bene. Le cose sono cambiate molto. Gli sperimentalismi, spesso così estremi di allora hanno fatto il loro tempo e oggi appaiono molto datati. Pensiamo alla musica aleatoria. Mettersi oggi a fare una di quelle – spesso pur bellissime – partiture grafiche mi pare un po’ un’operazione da… nostalgico. E il concetto di assenza di significato? Il rifiuto della dimensione comunicativa… Oggi la volontà di graffiare, lo sdegnoso isolamento del compositore nella sua turris eburnea appaiono atteggiamenti di maniera.
Intendiamoci: non che io voglia disconoscere l’importanza storica e la portata dirompente di quelle operazioni; certo, allora si mettevano in gioco elementi di rottura, la cui funzione diveniva altamente creativa, formativa; ma erano importanti soprattutto a livello meditativo, filosofico, più che in senso strettamente musicale. Insomma si viveva un inevitabile momento di passaggio – lungo, lunghissimo: dalle prime esperienze d’inizio secolo (pensa alle ricerche di un artista e di un pensatore della forza di Busoni sugli intervalli più piccoli del semitono, ai Futuristi e su su agli esperimenti sulla produzione sintetica del suono, già arditissimi fin dall’inizio, fino a Schaeffer, ed oltre) – oggi arrivato alla sua conclusione.
Sono i corsi e i ricorsi storici dai quali non è immune la strada dell’arte: ci sono musicisti che vengono quasi segnati dalla sorte a rappresentare le forze innovative, a portare alle conseguenze estreme la volontà di sperimentazione, aprendo la strada alle generazioni successive che trovandosi tecniche e percorsi già messi alla prova, svincolati dal grosso delle problematiche relative alla ricerca pura, hanno così la possibilità di prendere solo ciò che reputano funzionale alla creazione del proprio mondo espressivo. Ecco, mi pare che adesso si stia vivendo un clima di questo genere.
Ma tu accennavi anche alla definizione di Musica moderna. Beh, qui il concetto è un po’ più ampio, a mio modo di vedere. Direi che con questo termine si può indicare la produzione concettualmente legata al Novecento, inteso come il secolo della frantumazione dei linguaggi, l’aspetto più significativo di questo periodo. In effetti credo che la caratteristica maggiormente evidente, comune a tutte le espressioni artistiche del secolo sia proprio l’assenza di un linguaggio universalmente accettato. Esistono, sì, scuole, tendenze, correnti, ma alla fine ogni artista sviluppa un proprio indirizzo, spesso in modo assolutamente autonomo nelle forme come nei mezzi che impiega. Nei secoli passati le caratteristiche individuali di ogni compositore uscivano fuori, certamente, ma tutto avveniva all’interno di un ambito estetico comune. Nel Novecento, fin dall’inizio, questo non avviene più. Basta dare uno sguardo al panorama della produzione musicale intorno al 1911-13 per rendersene conto. In quegli anni nascono lavori dai più disparati indirizzi: dall’Isabeau di Mascagni, Le martyre de Saint-Sébastien di Debussy, Der Rosenkavalier di Strauss, a Le sacre du printemps di Stravinskij, con quell’orchestrazione che sembra talvolta cercare il fascino “perverso” del rumore bianco, al Pierrot Lunaire, dove Schönberg mette in gioco l’intonazione parlata dello Sprechgesang, agli esperimenti futuristi di Luigi Russolo con l’intonarumori…

C: Riesci a conciliare le tue esigenze personali e la tua sensibilità di autore contemporaneo con le esigenze, a volte poco sostenibili, di programmi di conservatorio risalenti al 1935?

CD: Non tanto, certo. Ora, dire quanto i programmi di Conservatorio siano inattuali è fin troppo facile e scontato! È però vero che la legge è meno rigida di quel che appare e se un maestro ha interesse, può impostare il suo lavoro con gli allievi tenendo conto anche della musica d’oggi. Penso per esempio – anche solo per limitarci ai pianisti – ad insegnanti come Cardini, Carmassi e tanti altri che nelle loro classi di conservatorio non si fermano certo a Debussy! Magari si può obiettare che queste operazioni sono lasciate all’iniziativa personale e che ci si può diplomare in uno strumento con una letteratura smisurata come quella pianistica senza aver mai suonato un pezzo che esca dalla tonalità! Un assurdo, certamente, come altri mille se ne possono riscontrare. Per esempio, lo sai che ci si può diplomare in Composizione solo facendo lavori scolastici, senza mai cimentarsi con la faticosa, difficile, a volte dolorosa ricerca di un proprio stile personale? Stupefacente, vero? Eppure succede, specie fra quegli allievi che intraprendono questi studi non tanto per comporre, ma solo per ampliare il loro bagaglio culturale.
Comunque l’ammodernamento dei programmi di studio indubbiamente va fatto. Alla Bonamici, già diversi anni fa ci provammo, anche se comunque bisognava tener conto di quelli ministeriali, che in fin dei conti – per quello che riguarda i contenuti – andrebbero solo sfoltiti del di più e integrati. Un’operazione delicata che andrebbe condotta con misura, badando a non cadere in una qualsivoglia furia iconoclasta e senza perdere di vista la dimensione storicistica. Io penso che una cultura musicale non possa dirsi completa se l’allievo non prende coscienza dal di dentro, dal vivo dell’esecuzione, di ciò che è avvenuto “prima”. Solo così si comprende ciò che viene dopo e – forse – quel che verrà. Insegnare solo ciò che serve all’immediato è tradire la funzione culturale dell’insegnamento. Vorrei un apparato scolastico e un Conservatorio che fossero centri di cultura e non diventassero mai scuole di arti e mestieri. Purtroppo la tendenza mi pare che vada in quest’ultimo verso. Quando sento magnificare una scuola dove, per esempio, l’insegnamento delle lingue avviene in modo pratico, con quel che serve per viaggiare o per inserirsi nel mondo del lavoro, “senza perdere tempo con la letteratura” (sic!), mi sento agghiacciare; come dire che quel che conta è “saper dire”, indipendentemente dal saper che cosa dire. Lo stesso è con la musica: facciamo attenzione a non creare, al posto di musicisti, solo degli esecutori, magari bravissimi e tecnicamente agguerriti, ma privi di una qualunque statura culturale.

C: Credi possa essere interessante far avvicinare un allievo dei corsi pianistici “di conservatorio” alla musica contemporanea, con finalità didattiche o artistiche?

CD: Sì, certamente, ma non direi soltanto “interessante”, aggiungerei “formativo”. Il problema è che alla fine i programmi d’esame sono talmente pesanti che difficilmente si hanno allievi che possano fare anche qualcosa in più oltre lo smisurato numero di pezzi che vanno tenuti nelle mani. E così alla fine nella maggior parte dei casi si rinuncia…

C: Potrebbe funzionare qualche piccolo esperimento a valenza propedeutica con alcuni bambini o ragazzini? Esiste un piccolo repertorio di pezzi “facili” o facilissimi di matrice contemporanea che potrebbe avere valenza didattica?

CD: Sì, ma bisogna fare attenzione a non forzare a tutti i costi la mano. Ci sono metodi centrati sull’educazione alla musica non tonale o sperimentale, ma a volte per voler essere moderni e disinibiti per forza, finiscono per diventare così tristi…
Pezzi facili o facilissimi? Mah, considera che la ricerca timbrica nella musica moderna riveste un ruolo molto importante; a volte la sostanza è tutta lì, per cui bisogna fare attenzione a non far passare il messaggio che la difficoltà sia un qualcosa di legato unicamente al gioco di agilità manuale. Poi, è vero che da qualche parte bisogna cominciare…

C: Puoi illustrarci alcune tue composizioni?

CD: Per prima cosa bisogna dire che il mio interesse è orientato da sempre più che altro sulla musica da camera; la voce umana ha sempre destato in me molto interesse, per la duttilità dello strumento-voce, che offre una tavolozza di sfumature letteralmente esaltanti, ma anche perché mi dà la possibilità di sposare la musica con la poesia, un’operazione che dal mondo greco in poi ha sempre affascinato l’uomo. In questi casi ovviamente mi lascio guidare dalla liricità del testo e quindi dal punto di vista formale la struttura si modella da sé. Invece nelle composizioni strumentali, dove sento maggiore l’impegno di scelte formali, mi diverto a cercare impasti timbrici (per esempio c’è stato un periodo nel quale trovavo… commovente anche soltanto il semplice suono del duo di flauti) e soluzioni armoniche che colpiscano la mia fantasia. A volte la composizione prende una piega più contrappuntistica, come nella Sonata per due flauti e pianoforte, dove il momento centrale è costituito da un canone cancrizzante per aumentazione e diminuzione contrario motu con il quale i due flauti dialogano su un “tappeto” di clusters pianistici, e dove il finale è una vera e propria fuga a due soggetti. In effetti quel pezzo – condotto con uno stile liberamente non tonale – costituisce quasi un omaggio alle forme del passato. Il titolo è allusivo al sonatismo classico; il pezzo in un unico movimento, presenta due idee tematiche – seriali nella struttura, ma non condotte poi con tecnica dodecafonica – e tre parti precedute da un elemento introduttivo lento. Quindi c’è l’idea di bitematismo e di tripartizione, da cui il titolo. Le tre parti hanno però indicazioni agogiche diverse ed alludono ai tre tempi di una sonata (allegro-lento-presto). La prima parte ha la struttura di un’esposizione di sonata, la seconda, (il canone cancrizzante), ha la funzione di momento rielaborativo, mentre la terza (la fuga) ha quella di ripresa.
Ma non sempre la forma è così complessa. In alcuni brani pianistici – gli Improvvisi, i Notturni – la forma è molto più libera e l’interesse volge spesso sul versante della creazione timbrica.
Raramente ho applicato il metodo dodecafonico in modo praticamente integrale. Il brano più indicativo in questo senso è senza dubbio Dromos, per voce recitante e sette strumenti su testi di Giuseppe Bonamici, un pezzo composto su richiesta dell’Ensemble Bonamici per commemorare il ventesimo anniversario della scomparsa del compositore pisano.
Altre volte, nello stesso pezzo, a momenti in dodecafonia rigorosa ne ho alternati altri dove la non-tonalità è del tutto libera e ad altri ancora dove sono riconoscibili addirittura centri tonali, come avviene in Italy, un ciclo di sei liriche per canto e pianoforte su testi di Giovanni Pascoli. In questa composizione fra l’altro sono introdotti anche momenti descrittivi, o meglio, evocativi, come qualche volta, nelle ultime composizioni, mi è accaduto di fare. Penso per esempio a Distanze per pianoforte dove il forte contrasto è rappresentato dall’accostamento di due elementi, l’uno flessibile e sognante, l’altro rude, duro, inesorabile.

C: In questo numero ci occupiamo in qualche modo di Cage. Come ti confronti con la sua opera?

CD: Cage è stato un Maestro, un grande innovatore. Ha aperto la mente a molti e storicamente ha avuto la funzione di additare una strada. È uno dei grandi del Novecento, ma non credo che oggi un compositore abbia più la necessità di vedere in lui un irrinunciabile punto di riferimento.

C: Che importanza ha l’orecchio nel tuo lavoro didattico e nella tua attività di compositore?

CD: Beh, è come il bene della vista per uno scultore! Eppure a volte è difficile far passare negli allievi il concetto che lo sviluppo dell’orecchio musicale è fondamentale. Guarda, io insegno anche Armonia Complementare: non immagini come sia arduo convincere i ragazzi che gli esercizi li devono fare al pianoforte, per capire i rapporti intervallari, le specie dei vari accordi, il senso dinamico dell’armonia classico-romantica. Niente (tanto poi l’esame si fa a tavolino…). Su questo aspetto gli studenti delle classi di Jazz, dove il problema è per forza di cose più sentito, sono in genere più aperti. Non è un caso che quando tenevo il corso d’intonazione all’interno della classe di Esercitazioni corali, la maggior parte degli allievi mi venisse proprio dal Jazz.
L’orecchio per un insegnante di musica è ovviamente uno strumento di lavoro irrinunciabile; come farebbe un professore di pianoforte a percepire le minime sfumature timbriche, o l’equilibrio armonico nelle gradazioni della pedalizzazione?
Come compositore che spesso cerca l’intuizione di atmosfere, frasi, timbri nell’arte dell’improvvisazione – intesa proprio come creazione estemporanea, non come rielaborazione ed assemblaggio – senza questa capacità mi sentirei menomato.

C: Perché suoni?

CD: Non vorrei cadere nella retorica (a parlar di queste cose si fa tanto presto…). Solo chi vive quest’esperienza sa e può capire fino in fondo la sensazione di pienezza che dà il sentir uscire il suono da dentro di sé, dalle tempie, dagli occhi; sentirlo sotto le dita, crearlo con la sfumatura timbrica che si vuole, fonderlo con gli altri per equilibrare le parti di un accordo… È una forte sensazione fisica, oltre che mentale, ed è totalizzante.
Oggi, per l’indirizzo che ha preso la mia vita professionale, che non mi permette di gestire i periodi di studio come vorrei, non suono più in concerto. Suono solo quando voglio, cosa voglio e per chi voglio, e se un tempo questa rinuncia è stata per me motivo di amarezza, oggi vivo questa dimensione in maniera molto positiva, come un’occasione per proseguire il cammino in un processo di interiorizzazione che mi arricchisce come uomo e come musicista.

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Carlo Deri (1956), compositore, pianista e didatta, ha studiato con Carlo Prosperi al conservatorio “L. Cherubini” di Firenze, dove è stato inoltre allievo di Musica Corale e Direzione di Coro e di Direzione d’Orchestra. Dal 1983 nella Scuola di musica “G. Bonamici” di Pisa (dove ha insegnato Pianoforte principale, Armonia e Contrappunto, Cultura Musicale Generale, Esercitazioni Corali) ne è divenuto direttore nel 1986, ampliandone notevolmente il numero degli insegnamenti – sua, fra l’altro, la scelta di aprire corsi di Jazz, fino ad allora inesistenti a Pisa – e promuovendo sperimentazioni come quella sul sistema valutativo. Direttore Artistico de “I Ricercari” (1997) e dell’Associazione Musicale Contemporanea (2000), è stato Presidente della sezione pisana della Gioventù Musicale d’Italia (1989). Dal 2002 collabora con l’Opera Theatre and Music Festival of Lucca, legata al Conservatorio dell’Università di Cincinnati (U.S.A.).
Nel 1999 ha pubblicato su Tetraktys un significativo lavoro su Giuseppe Bonamici (poi inserito nel RILM, Répertoire International de Littérature Musicale) e, recentemente, il saggio Giuseppe Bonamici ed altri compositori fra Pisa, Livorno e Firenze (Firenze, 2004). Citato in diverse pubblicazioni fra cui Il cuore del suono, di Renzo Cresti (Firenze, 2001) e l’Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei (Napoli, 1999), uno studio sulla sua figura artistica è presente in Firenze e la musica italiana del secondo Novecento (Firenze, 2004); le sue composizioni sono eseguite in Italia e all’estero.