RECENSIONE di RENZO CRESTI

dalle note del programma di sala di Musica per la poesia: Carlo Deri compone sui testi di Ungaretti, Pavese e Pascoli. Pisa, Teatro Verdi, 27 settembre 2006; Barga, Teatro dei Differenti 14 ottobre 2006

Locandina Teatro VerdiCarlo Deri, Italy

di Renzo Cresti

In un momento dove, anche nel mondo della musica, si assiste al frazionamento dei saperi e alla professionalità svolta in un solo settore particolare, Carlo Deri è quello che si usa definire un musicista completo: compositore –  allievo di Carlo Prosperi al Conservatorio di Firenze –, pianista di buona lettura, musicologo e analista – ha infatti pubblicato approfonditi saggi e analisi –, conferenziere convincente e didatta appassionato, animatore infaticabile della vita musicale toscana, quale Direttore artistico o Presidente di varie Associazioni. Dal 1983 è insegnante alla Scuola “Bonamici” e nel 1986 ne assume la direzione; recentemente ha collaborato con il Conservatorio dell’Università di Cincinnati che dal 2002 gli ha realizzato l’esecuzione di diversi pezzi sia negli Stati Uniti che in Italia, fra cui uno dei brani più impegnativi del suo catalogo, Italy.

Lo studio con Prosperi a Firenze ha fortemente segnato la sua scrittura e la sua poetica. Si è da subito legato all’Umanesimo fiorentino, riprendendone l’attenzione alla forma e all’asciutta espressività, comprendendo che l’annoso problema del rapporto tra forma e contenuto è mal posto; infatti i due termini non sono antitetici, ma complementari: l’uno rafforza l’altro e, nei casi migliori, sono tutt’uno.

Deri possiede la capacità di immettere nella musica un’onda di commozione autentica, fra intimismo e partecipazione civica; sa bene qual è l’importanza del lavoro artigianale e l’affianca all’estro e alla necessità interiore della comunicazione. Infatti la forma, specie nei brani con testo, non è pre-ordinata, ma intuita; non ci sono complessi e cervellotici piani preparatori, ma la scrittura procede seguendo l’ascolto del suono interiore. Disciplina e rapimento espressivo convivono con reciproco vantaggio.

Teatro Verdi dal palcoscenicoL’interesse prevalente di Deri è la musica da camera e in particolare quella con la voce: “la voce umana ha sempre destato in me molto interesse, per la duttilità dello strumento-voce, che offre una tavolozza di sfumature letteralmente esaltanti, ma anche perché mi dà la possibilità di sposare la musica con la poesia” – dice lo stesso Deri. “Mi lascio guidare dalla liricità del testo e quindi, dal punto di vista formale, la struttura si modella da sé. Invece nelle composizioni strumentali, dove sento maggiore l’impegno di scelte formali, mi diverto a cercare impasti timbrici e soluzioni armoniche che colpiscano la mia fantasia”. Negli anni Ottanta il percorso di Deri inizia con lavori di un certo impegno tecnico-formale, come Passacaglia (1984) per due flauti e come la contrappuntistica Sonata (1986) per due flauti e pianoforte, composizioni di ricerca linguistica e dal suono un po’ duro che, se paragonate a quelle scritte un decennio più tardi, paiono ancora preoccupate di ricercare la novità sonora e legate a un disegno intellettuale che lascerà il posto a un procedere più immediato ed evidente nel suo disporsi, come nel fortunato pezzo Dromos (1998) che ha giustamente conosciuto molte esecuzioni, per voce recitante su testi di Giuseppe Bonamici e sette strumenti. Dromos è un pezzo assai esemplificativo della flessibilità metodologica: qui infatti Deri usa, come di rado gli capita, la dodecafonia, ma nelle sue mani questo sistema inesorabile perde la sua rigidezza per piegarsi alle esigenze espressive dei versi poetici. Bellissimi i recenti pezzi pianistici, dove si equilibrano ricerca (specie in Improvviso n. 2) e soliloquio espressivo (come in Notturno n. 2 e in Incanto, nei quali la forma libera si struttura prevalentemente seguendo modalità timbriche).

Anche per i pezzi con testo si può notare un’articolazione diversa fra i lavori degli anni Ottanta, come le Due liriche di Pavese, un brano importante per canto e pianoforte, e quelli recenti, come appunto Italy, dove si ascoltano momenti tonali, lirici, evocativi o descrittivi (come pure nel pianistico Distanze del 2003), pezzi dunque che si dipanano come un processo espressivo e non solo come progetto compositivo. Dal lungo poemetto che Pascoli scrisse nel 1904, Deri ricava, talvolta anche assemblando versi da strofe diverse, sei liriche, a ciascuna delle quali dà un titolo. La storia è quella di due fratelli che tornano dall’America, “da Cincinnati, Ohio”, portando la nipotina Maria (detta Molly), malata di tisi, a guarire in Italia. Il fenomeno dell’emigrazione, che in Garfagnana inizia nell’Ottocento e prosegue fino al secondo dopoguerra del Novecento, è tema assai attuale anche se rovesciato: oggi non sono più gli Italiani ad andare a cercare lavoro all’estero ma è la povera gente dell’Est europeo, dell’Asia e dell’Africa, a tentare la fortuna nel nostro Paese. La scelta di questo argomento è allora anche un monito alla memoria e all’accoglienza.

La voce è spesso declamata e al pianoforte si affidano i mutamenti espressivi: straordinaria è la simpatia che si crea fra la musica e i versi di Pascoli, come se Deri avesse trovato l’humus privilegiato che gli consente di toccare le corde dell’afflato intimista, che va dall’elegiaco alla tristezza, dal nostalgico al dolente. Quartine ostinate e marcate, che cedono il posto a sestine discendenti, introducono la voce in recto tono: spesso la voce declama su una sorta di immaginario tono di recita. Il tempo muta rapidissimamente dal 7/4 al 2/4, dal 2/8 al 3/8, fornendo quell’andamento un po’ claudicante ch’è tipico di tutto il pezzo, una flessibilità (e un rubato) che è anche tentennamento esistenziale (“esitante” si legge nello spartito), simbolo dell’insicurezza dei protagonisti, un’incertezza di vita che viene accentuata anche dalla particolare armonia (molte le sezioni in cui gli accordi pianistici vengono in evidenza) che ricorre pure al cluster.

La seconda sezione, “E i figli la rividero alla fiamma del focolare”, inizia in tempo libero, senza battute, con un tessuto sonoro rarefatto sulla parola “mamma”. Interessante la commistione linguistica che Pascoli realizza, fra l’italiano, il dialetto, l’inglese e lo slang, commistioni che Deri ben individua e sottolinea con arguzia e intelligenza (bella, anche graficamente, con parole piccole e grandi a seconda del loro modo di essere pronunciate e con le macchie del cluster, la pagina in cui si grida “bad country, Ioe, your Italy!”). Momenti drammatici descrivono il rapporto della bimba malata con la nonna; qui Deri dimostra di possedere un pathos romantico, avvolgente e commovente. “Non piangere, poor Molly”, la nonna è morta: struggenti accordi diventano poi note lunghe e quindi di nuovo accordi che si dispongono come un tappeto sonoro o come un sudario. Anche il finale è affidato ad accordi sospesi, come a indicare che la vicenda non si chiude, ma che la triste storia di questi emigranti si ripeterà. Deri è davvero uno dei Maestri più acuti, in campo nazionale, nell’individuare le articolazioni armoniche in funzione espressiva, una dote che, abbinata a quella melodica e timbrica, rende la sua musica densa di umori e con una cifra stilistica originale.

Pisa, settembre 2006