Il materiale di questa intervista è stato pubblicato in Renzo Cresti, I linguaggi delle arti e della musica – L’e(ste)tica della bellezza, Edizioni  Il Molo, 2007

(http://www.edizioniilmolo.it/libro.aspx?idlib=68)

I linguaggi della musicaRenzo Cresti – Qual è il tuo rapporto in generale con la letteratura, con la pittura e con altre forme artistiche?

Carlo Deri – Sono incuriosito e affascinato da tutte le forme artistiche, dalla pittura alla letteratura, all’architettura, alla scultura. La pittura, in particolare, mi prende molto e spesso mi scopro a leggere un’immagine in relazione alla musica. La fantasia si mette in moto e la fruizione dell’opera acquista uno spessore particolare quando il pensiero, vagando liberamente, mi porta a fare involontari collegamenti alla musica che si faceva al tempo in cui il dipinto è stato concepito, a ciò che quel dato artista potrebbe aver ascoltato…

Si potrebbe pensare che l’approccio fosse di tipo fondamentalmente storicistico (e a questo livello un discorso analogo lo potrei fare in riferimento anche alle altre espressioni artistiche), ma questo è solo un aspetto della questione; a volte – e qui il coinvolgimento si attua su un piano di maggiore profondità – guardo i colori, le forme, le linee di fuga e mi sgorga una sorta di “traduzione musicale” di quel che vedo. Mi capita soprattutto di fronte ad immagini astratte o circonfuse di aloni particolari che rendano i contorni indefiniti; sarà perché questo genere costituisce gran parte dell’arte del mio tempo, quindi per una sorta di vicinanza temporale; o forse – e qui la spiegazione mi convince di più – perché lo sento come la forma pittorica più “musicale”, cioè è quella che grazie all’allontanamento o all’abbandono della figura si avvicina maggiormente alla più astratta in assoluto delle arti, la musica, riportandomi sul terreno del linguaggio che per me è il più familiare.

RC – Come l’arte e in particolare la poesia entra nella tua musica?

CD – Anche se il coinvolgimento emotivo della pittura è molto forte, pure il riferimento pratico, oggettivo, produttivo, l’ho ricercato nella poesia. Ho scritto musica su testi poetici di vario genere, ma mai su opere che presentassero un linguaggio soffuso di un estetismo estremizzato, niente che mi sembrasse patinato da un’atmosfera aulica che poco si addice al mio modo di sentire. Così mi sono accostato al linguaggio del Pascoli “sperimentale” di Italy – permeato di un sentimento popolare che si percepisce nei termini mutuati dalla lingua della gente umile (un’operazione peraltro condotta con spirito gentile, rispettoso, ben lontana da quel senso di sufficienza e superiorità nei confronti delle espressioni del popolino illetterato che invece si riscontra in altri autori) – all’ermetismo di Ungaretti, così affascinante nell’essenzialità scarna dei suoi versi, alla poesia angosciosa di Pavese, spesso fatta di immagini dure, di una crudezza dolorosa.

La narrativa invece mi colpisce per le situazioni, per le storie che si mettono in gioco. Benché ritenga che alcuni aspetti del mio carattere siano di natura gioviale, tutto sommato allegra, mi scopro a pensare il mio rapporto artistico con la letteratura orientato esclusivamente su temi seri, tragici, che mettano in moto grandi dilacerazioni. E così – proiettandomi in una dimensione creativa – escono fuori dal profondo elementi che mi dicono che la mia natura è un’altra, venata di tristezza, certo meno leggera e piacevole per me da sopportare.

RC – Compositivamente come ti comporti quando usi un testo?

CD – Parlando della lirica cameristica per canto e pianoforte, che è il genere che fin dall’inizio del mio cammino mi ha maggiormente affascinato, il percorso si avvia con un primo momento di meditazione del testo poetico la cui durata non è quantificabile e che può essere anche piuttosto lungo; ad un certo punto scatta qualche meccanismo che mi porta ad un contatto con l’opera poetica più “sciolto”, sempre rispettoso, sì, ma meno – o, forse, non più – timoroso, per cui si può innescare l’atto creativo vero e proprio. Un compositore, infatti, nel rivestire di musica una poesia non si limita ad un fatto tecnico, ma ne dà la sua interpretazione e così facendo le dona una sorta di “seconda vita”. Si crea, cioè, un’opera d’arte differente, che non è più la poesia iniziale, ma un qualcosa di nuovo, nel quale va messa per forza di cose in preventivo, senza falsi pudori o reticenze, anche la possibilità di mettere in luce, sottolineare e addirittura modificare o anche aggiungere – con sola forza della musica, e quindi senza intervenire con modifiche testuali – elementi appena accennati o anche tralasciati dal poeta.

È insomma lo stesso concetto di interpretazione con il quale ogni strumentista che non sia un semplice esecutore deve confrontarsi ogni volta che ridà vita ad un brano, ma in forma molto potenziata: stavolta questo processo è fissato sulla carta della partitura, e si raggiunge solo dopo che si è creata una comunione spirituale con il testo poetico tanto da sentirlo come proprio. Prescindendo da questa idea costruttiva – faticosa, sì, ma affascinante nel suo evolversi, la composizione diviene solo un fatto artigianale che non mi interessa più di tanto.