Pubblicato su Tetraktýs, Anno III, n. 3, Gennaio 1999 e qui riportato per gentile concessione dell’Editore

COPERTINA al 30p100

Il canto interrotto.

Sulla vita e l’opera di Giuseppe Bonamici

Carlo Deri

     La diffusione delle opere di Giuseppe Bonamici (1936-1978), compositore pisano, autore anche di una cinquantina di brevi composizioni poetiche, ha subìto, come spesso avviene per gli autori contemporanei, un brusco arresto dopo la sua morte. Oggi si assiste ad un rinnovato interesse verso questo artista che si concretizza in concerti, incisioni discografiche, pubblicazione delle sue musiche, utilizzo da parte di altri compositori dei suoi temi poetici e musicali. L’indagine sui manoscritti ha portato alla luce altre composizioni (tre brani musicali ed una poesia) sconosciute fino ad ora.

     Partito da un linguaggio di impianto tardo romantico (primo periodo di studi a Lucca) giunge presto al superamento della tonalità, specialmente grazie al confronto con i maestri del Conservatorio di Firenze, soprattutto con Carlo Prosperi – figura eminente di musicista e di didatta, uno dei fondatori della “Schola Fiorentina”, un gruppo di compositori impegnati nella ricerca di nuovi linguaggi che contribuirà a scuotere il pigro ambiente musicale cittadino – con il quale instaura un rapporto di ammirazione e stima che si protrarrà oltre il termine degli studi in Conservatorio.

     A Firenze Giuseppe Bonamici ha occasione di cimentarsi con la tecnica dodecafonica, anche se non utilizzerà mai integralmente il metodo: la serie, nelle sue composizioni è vissuta come una traccia, un modello che gli serve per cercare soluzioni improntate ad un suggestivo lirismo. Le composizioni, di cui si pubblica anche il catalogo completo, vengono brevemente presentate nella parte finale di questo lavoro.

… il processo vitale di una composizione è la sua esecuzione. Mancando questa la musica resta un segno grafico fruibile soltanto dagli addetti ai lavori.

Piero Bellugi

Risale a poco più di vent’anni fa la scomparsa di Giuseppe Bonamici, compositore pisano, autore anche di una cinquantina di brevi composizioni poetiche, prematuramente scomparso a soli 41 anni nel 1978. Un male rapido e incurabile  ha troncato bruscamente la sua vita proprio quando il suo percorso artistico era da poco entrato nel vivo di una produzione matura e cominciavano ad arrivare i primi riconoscimenti consistenti del mondo musicale.

La letteratura su questo autore è particolarmente esigua: fino ad oggi, infatti, esiste solo un lavoro monografico, a cura di Sergio Pernigotti, pubblicato nel 1987 dalla Giardini Editori di Pisa.[1]

La diffusione delle opere di Giuseppe Bonamici ha subito, come spesso avviene per i compositori di oggi, un brusco arresto dopo la sua morte. A parte l’esecuzione sporadica di alcuni brani, in pratica sulla sua musica è calato un velo di silenzio imputabile in gran parte ad una certa diffidenza del pubblico nei confronti della musica contemporanea nonché ad un velato timore degli interpreti nel proporre brani considerati da sempre di difficile o, comunque, di non immediata comprensione. Oggi fortunatamente, grazie all’impegno e alla determinatezza di un gruppo di operatori musicali soprattutto di area pisana, si assiste alla ripresa degli studi su questo autore: nei mesi passati sono stati effettuati vari concerti tutti centrati sulla produzione sia musicale che poetica di Bonamici ed è stato inciso un compact disc di prossima pubblicazione.

Da rilevare inoltre un’altra operazione editoriale di grande importanza: in questo momento è in corso di preparazione l’edizione critica di tutte le musiche ancora manoscritte. Anche se non è prevedibile con precisione il periodo in cui verrà concluso il progetto, è però certo che i primi lavori verranno pubblicati nei primi mesi del 1999.

     Gli inizi

Giuseppe Bonamici era nato nel 1936 e, benché fin da ragazzo fosse sempre stato attratto dal fatto musicale, fino ai vent’anni non aveva mai avuto l’occasione di intraprendere una carriera di studi in senso professionistico.

Risale al 1956 la sua prima composizione, un’Ave Maria per coro ad una voce ed organo (ma può essere eseguita anche con il violino al posto del canto) di sapore tardo romantico, completamente tonale, di ispirazione delicatamente sentimentale, certo molto lontana da quella che sarà la sua produzione successiva, quella della maturità.

Le composizioni di Giuseppe Bonamici si collocano quindi fra il 1956 e il 1977, ma queste due date non devono trarre in inganno: il periodo produttivo del compositore si riduce molto se si considera che dal ’56 al ’64 non si hanno nuovi brani. Questo periodo di silenzio, naturalmente non va inteso come un allontanamento dalla musica, ma, al contrario, come un momento di arricchimento e di approfondimento che lo condurrà ad un linguaggio evoluto: sono gli anni dei primi studi che lo porteranno dalla condizione di “dilettante d’ingegno” a quella di compositore pienamente inserito nella realtà musicale della sua epoca.

A ben vedere, però, neanche il 1964 può essere a pieno titolo considerato il punto di partenza, perché anche la produzione di quell’anno, benché molto più matura e interessante rispetto all’Ave Maria di otto anni prima, si distacca nettamente dallo stile che verrà adottato nei brani dal 1968 in poi. I brani del ’64 sembrano appartenere più ad una tappa intermedia nel cammino verso un’identità personale, piuttosto che, come si suol dire, ad un “primo periodo” vero e proprio.

Si tratta di tre liriche per canto e pianoforte su testi tratti da Myricae di Giovanni Pascoli, dove il linguaggio, benché evidenzi una visione più allargata della dimensione tonale – che comunque è sempre presente – e una tecnica componistica molto più evoluta, appare in qualche elemento legato a ricordi tardo romantici, con riferimenti ad armonie ed atmosfere di gusto  pucciniano.

Queste considerazioni, come si vede, nascono esclusivamente da analisi di carattere tecnico, sono effettuate alla luce della comparazione di questi primi lavori con la produzione successiva, e non vogliono assolutamente costituire giudizi di merito sul valore artistico dei brani stessi: il valore comunicativo di un’opera d’arte e il suo inserimento in un contesto stilistico sono elementi del tutto separati, assolutamente indipendenti fra loro. Nelle tre liriche su testi pascoliani, per esempio, che spesso vengono sbrigativamente liquidate con l’etichetta di “lavori giovanili” l’autore raggiunge livelli espressivi e di aderenza al testo di notevole spessore, che fanno sì che il loro ascolto sia sempre coinvolgente. Sebbene a livello di linguaggio la strada sia ancora tutta da percorrere, dal punto di vista artistico, comunicativo, appaiono lavori del tutto apprezzabili.

E così l’Ave Maria, anche se dal punto di vista stilistico appare un’esperienza del tutto isolata, un po’ “fuori tempo”, per la sincera freschezza della sua ispirazione è un brano molto amato dal pubblico, che evidentemente vi riconosce una vena artistica di profonda sensibilità. E forse vi riconosce anche una testimonianza della sua serena fede cristiana. Bonamici era un uomo profondamente religioso (alcune sue composizioni terminano con l’annotazione in calce “Deo gratias”); chi lo ha conosciuto ricorda che ogni anno passava un periodo di meditazione, di raccoglimento nel convento della Verna, ricercando nel rapporto con la natura il contatto con il trascendente e riuscendo a trovare quell’equilibrio interiore che lo predisponeva favorevolmente all’atto creativo.

Gli studi di Giuseppe Bonamici cominciano a Pisa con insegnanti privati e proseguono poi presso l’Istituto “Boccherini” di Lucca sotto la guida di Enzo Borlenghi. Il periodo lucchese si colloca dal 1955 al 1964. Le composizioni di questo periodo sono quelle citate prima: l’Ave Maria e le Tre Liriche su testi pascoliani.

Le composizioni dal ’68 in poi sono quelle del cosiddetto periodo fiorentino, quando studia a Firenze dalla fine del ’64 presso il Conservatorio “Cherubini”, sotto la guida di Roberto Lupi e di Carlo Prosperi. Con quest’ultimo maestro giungerà al diploma nel 1973.

     La situazione musicale a Firenze negli anni ’50 e ’60

Quando Bonamici giunge a Firenze, nel ’64, trova una situazione non certo rosea, ma in un qualche modo “in fermento” riguardo alla musica contemporanea, anche se il pubblico dei concerti è generalmente molto disinformato.[2]  E’ vero che il 1964 è l’anno del Maggio musicale fiorentino dedicato al ‘900, ma non alla musica contemporanea, sebbene all’Espressionismo storico. Comunque è un grande progresso, in quanto la musica del ‘900 a Firenze è ancora mal sopportata. Siamo negli anni ’60 e ancora la dodecafonia (che non rappresenta nemmeno più l’avanguardia) non solo non viene capita, ma viene sdegnosamente disprezzata. Non accennano a sopirsi le polemiche e i compositori che si dedicano ai nuovi linguaggi si sentono emarginati. La musica contemporanea, nel capoluogo toscano, è ancora un fatto isolato, per pochi.

Per cercare di ovviare ad una situazione di emarginazione culturale che, a livello musicale, Firenze viveva nell’immediato dopoguerra, nel 1954 un gruppo di sei compositori aveva dato luce alla “Schola Fiorentina”, un’associazione che aveva come scopo primario quello di riunirsi per conoscersi, per scambiarsi le idee; una specie di cenacolo musicale nel quale poter parlare dei destini della musica e trovarsi con persone che stessero vivendo le medesime problematiche. Il maestro di Bonamici, Carlo Prosperi fu uno dei fondatori; gli altri erano Arrigo Benvenuti, Bruno Bartolozzi , – violinista e direttore d’orchestra oltre che compositore-,  Alvaro Company – compositore, ma soprattutto chitarrista – Reginald Smith Brindle e il poco più che ventenne Sylvano Bussotti.

Ad eccezione di Brindle erano tutti musicisti fiorentini, o comunque toscani di area fiorentina. Avevano comunque tutti studiato al “Cherubini” e Prosperi, Benvenuti, Bartolozzi e Brindle erano stati allievi anche di Luigi Dallapiccola, che in quegli anni rappresenta il nume tutelare della musica contemporanea a Firenze, e che talvolta partecipa alle riunioni della Schola Fiorentina.

Si consideri comunque che ancora negli anni cinquanta c’era tutta una serie di problemi relativi alla diffusione della musica moderna, anche semplicemente a livello di ascolto, fin dalla mera reperibilità di nastri, che oggi si fatica quasi a comprendere.[3] Una situazione di isolamento nella quale, per esempio, non si sapeva nulla dei corsi che in quegli anni si stavano effettuando a Darmstadt,[4] e che avranno così grande peso nello sviluppo della musica contemporanea mondiale.

Confrontato con quello di altre città italiane, il quadro generale delle attività fiorentine di quegli anni riguardanti la musica moderna appare piuttosto desolante. Mentre a Firenze ci si dibatte per uscire da un provincialismo che risulta soffocante agli operatori culturali più avvertiti, a Venezia per esempio, oltre all’importante ruolo assunto dalla Biennale, si impone all’attenzione l’intensa attività del Teatro La Fenice, che mette in programma tutta una serie di importanti prime esecuzioni: il balletto Marsia di Dallapiccola (1948), The Rake’s Progress di Stravinskij (1951), The turn of the Screw di Britten (1954), L’angelo di fuoco di Prokofiev (1955), Intolleranza di Luigi Nono (1960), Hyperion di Maderna (1964). Per non parlare poi di Milano, dove già nel 1949 si tiene il “Congresso di Dodecafonia”. Nello stesso anno la casa editrice Suvini Zerboni comincia ad impegnarsi a fondo nella pubblicazione di opere moderne (Petrassi, Dallapiccola, Vlad, Riccardo Malipiero, Maderna, Castiglioni, Berio, Porena, Aldo Clementi); negli anni cinquanta Berio e Maderna fondano il “Centro di Fonologia” presso la RAI, nel quale si esplora il campo della musica elettronica; nel 1955 si avvia l’attività della Piccola Scala, che fin dall’inizio si dedica alla diffusione della nuova musica, mentre nel ’57-58 Maderna tiene presso il Conservatorio, un corso libero di Dodecafonia.

Firenze è ancora molto indietro, ma negli anni sessanta la situazione comincia a muoversi, sia pur lentamente: nel 1961 si costituisce la casa editrice Bruzzichelli, il cui direttore è Arrigo Benvenuti e che comincia a pubblicare musiche di Prosperi, Bartolozzi, Grossi, Bussotti, dello stesso Benvenuti, e di altri. Sempre in quegli anni, grazie a Pietro Grossi, si forma un’altra associazione musicale denominata “Vita musicale contemporanea” che organizza rassegne e concerti con musiche di autori sia italiani che esteri.

Firenze comincia quindi a conoscere, fra mille polemiche, la musica di Cage, Kagel, Stockhausen, Boulez, ma anche di autori italiani, come Donatoni, Aldo Clementi, Petrassi, Maderna, Berio, Nono. Inoltre “Vita musicale contemporanea” organizza ascolti di musica elettronica. D’altra parte Pietro Grossi è uno dei primi in Italia che si occupano di musica elettronica e di computer music: il CNUCE di Pisa, presso il quale egli ha per anni condotto ricerche con elaboratori elettronici, è stato un centro molto importante per la produzione di musica di questo genere. Nel ’65 grazie all’interessamento di Grossi, che ne sarà il primo insegnante, viene fondata presso il Conservatorio “Cherubini”, la classe di musica elettronica.

    La dodecafonia.

A Firenze Giuseppe Bonamici viene così in contatto con le esperienze musicali mitteleuropee e abbandona definitivamente la tonalità.

I lavori di questo periodo sono radicalmente diversi dai precedenti del periodo lucchese. Alla scuola fiorentina, soprattutto grazie all’insegnamento di Carlo Prosperi, ha occasione di cimentarsi con la tecnica dodecafonica. Questo momento segna l’abbandono del concetto di tonalità e l’aprirsi di un mondo di nuove possibilità espressive attraverso l’esplorazione di una tecnica per lui del tutto nuova.

Come è noto la dodecafonia è un sistema teorizzato da Arnold Schönberg[5] intorno agli anni venti, per comporre usando i dodici suoni del totale cromatico di un’ottava senza altri legami che quelli imposti volta per volta dal compositore stesso. Viene così a cadere l’ordine gerarchico fra i sette suoni della scala diatonica, che aveva determinato la composizione classico-romantica. L’effetto principale del sistema dodecafonico consiste nell’annullamento del concetto di dissonanza e consonanza intesi come moto e stasi, tensione e rilassamento. Nasce così la cosiddetta “musica atonale”. Il termine, oggi comunemente accettato, in origine fu usato in senso dispregiativo, con precisa intenzione di condanna, come a dire: negativo, anarchico, contrario alla logica discorsiva. Schönberg, a cui la creazione del metodo era costata 12 lunghi anni di faticose ricerche e tentativi, naturalmente rifiutò sempre questo termine e definì questo procedimento “metodo per comporre mediante dodici suoni che non stanno in relazione che tra loro”.

In breve, il procedimento dodecafonico si può così riassumere: il compositore dispone i dodici suoni in un ordine da lui scelto di volta in volta, prima di accingersi all’atto creativo, e così costruisce una “serie”. La serie non rappresenta un tema oppure una cellula melodica o ritmica da cui il compositore trarrà l’incentivo per lo svolgimento di un determinato pezzo. Essa, in sé, appare come un mezzo tecnico astratto, sia pure ordinato preventivamente.[6]

Dalla serie originale si traggono altre tre serie derivate, che ampliano le possibilità a disposizione. La serie nelle sue quattro forme – trasportate sui 12 suoni dell’ottava – sarà utilizzata per la composizione delle melodie, dei contrappunti, delle armonie del brano.

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Ogni pezzo quindi ha una propria serie originale; facendo un calcolo delle possibilità combinatorie dei 12 suoni si ottiene un numero superiore a 479 milioni di serie. Il caso di più brani con la stessa combinazione di suoni, come avviene talvolta in Bonamici, è del tutto eccezionale.

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Il principio ispiratore della serialità fu il bisogno avvertito da Schönberg di imporsi un sistema per “strapparsi” dal senso della tonalità che sentiva come un condizionamento ormai sterile, ma radicato profondamente in se stesso. D’altra parte la sua formazione musicale era avvenuta negli ultimi anni del secolo ed era quindi di impianto tardoromantico.

Usando la serie aveva la garanzia di non riproporre all’ascolto un suono prima di aver usato tutti gli altri, e quindi di non creare un centro di attenzione. La ripetizione di per sé, infatti, dà importanza ad un suono rispetto agli altri, e crea quindi un centro tonale.

Dopo la seconda guerra mondiale la dodecafonia classica aveva già subito un’evoluzione. Intorno agli anni ’50 si era andata delineando una tendenza d’avanguardia che trovò il suo centro di aggregazione nella cosiddetta “Scuola di Darmstadt”, che estese i principi della scrittura seriale ai valori ritmici, timbrici e d’intensità.

Nel momento in cui Bonamici comincia la sua carriera, negli anni sessanta, la necessità di imporsi una regola per uscire dalla tonalità, per un giovane compositore, è molto meno forte di 50 anni prima: il senso non tonale della musica comincia ad essere un fatto acquisito per chi si proietta in una dimensione creativa, ed ecco perché compositori come lui vivono la dodecafonia in modo molto più libero e disteso rispetto agli iniziatori. Bonamici infatti non utilizzò mai integralmente il metodo: la serie, nelle sue composizioni diventa una traccia, un modello che gli serve per cercare soluzioni improntate ad un suggestivo lirismo.

Sulla poetica di Bonamici è particolarmente significativa la testimonianza del suo maestro, Carlo Prosperi. Egli scrisse nel ’79, ad un anno circa dalla scomparsa del suo allievo[7]:

“Di queste avanguardie [ci si riferisce a compositori come Berio, Maderna, Stockhausen, Boulez, Penderecki] non condivideva tutte le prospettive, specialmente per quanto attiene il criterio di negazione dell’afflato espressivo nel discorso musicale, negazione espressiva a vantaggio della ricerca sperimentale […] All’opposto Bonamici si sentiva istintivamente portato ad una visione artistica ispirata alla meditazione interiore e al canto come mezzo di comunicazione con l’ascoltatore, respingeva dunque il gusto della sorpresa ritmica prodotta dal gioco meccanico delle permutazioni matematiche, oppure l’arabesco sonoro cangiante, di affascinante effetto timbrico-coloristico, ma vuoto e superficiale quanto a significato umano di contenuto. Giuseppe fu preso dal bisogno e dal fervore della ricerca della novità, ma fu al contempo consapevole della faticosa problematica di cui tale ricerca è pervasa, che è poi la problematica dell’uomo moderno nella crisi storica del suo tempo. Egli svolse il suo assunto di compositore senza rinunciare al proprio umore espressivo di fondo che fu essenzialmente lirico e che testimonia il suo sentire gentile e schietto di toscano[…]”.

     L’incontro con Carlo Prosperi.

Quello con Prosperi è un incontro particolarmente fortunato. Come si sa, nel difficile  rapporto maestro-allievo, specialmente nel campo musicale, dove il confronto è a livello personale e coinvolge strati profondi della personalità del discente, non è sufficiente che l’insegnante abbia competenza artistica, equilibrio, esperienza, vasta cultura e che l’allievo dimostri buone capacità: qui più che altrove bisogna che i due si intendano, che “parlino la stessa lingua”. E’ inutile sottolineare che in un rapporto del genere, il maestro certamente ha il compito più arduo: deve avere la capacità di capire, di ascoltare, di promuovere la discussione, di incoraggiare, perfino di prevedere, indirizzando nel modo più discreto, senza mai prevaricare, senza mai sovrapporre la propria personalità su quella dell’allievo.

Carlo Prosperi (Firenze 1921-1990) era stato allievo di Cicionesi, Frazzi e Dallapiccola, diplomandosi nel 1949. Aveva per alcuni anni – dal ’50 al ’58 – lavorato presso la RAI di Roma per la programmazione delle trasmissioni di musica da camera, operistica e sinfonica e in seguito, dal 1958, era giunto all’insegnamento presso il Conservatorio di Firenze, dapprima nella scuola di armonia e contrappunto e poi, dal 1971, in quella di composizione. Compositore inizialmente orientato verso un’espressività di derivazione neoclassica, dalla quale non era estranea una dimensione tonale, ha presto arricchito il linguaggio estendendolo ai 12 suoni, senza tuttavia abbracciare integralmente il sistema dodecafonico, che ha sempre sentito piuttosto lontano dalla sua poetica.

Dopo un fortunato inizio, la diffusione delle sue opere ha subito un brusco arresto dovuto essenzialmente alle vicende politico-culturali degli anni ’60 e ’70. Figura di grande rigore morale – non era certo tipo da scendere a compromessi con la sua coscienza –, non ha mai accettato di sottostare alle leggi della lottizzazione partitica (che ha aggravato la situazione in un contesto dove da sempre è molto difficile farsi strada senza l’appoggio di qualcuno, sia questo un personaggio influente, un gruppo di potere o una fazione) e ha quindi preferito pagare un caro prezzo per la sua indipendenza di pensiero e di uomo di cultura, affrontando la dura sorte del sepolto vivo.[8] In questo è stato un esempio di coerenza per i suoi allievi, nei quali ha saputo trasfondere, unitamente all’amore per la musica, la coscienza della dimensione morale che è presente nella creazione artistica,[9] assumendo per molti – non è esagerato affermarlo – la statura di Maestro di vita. Nel lavorare con lui anche chi non ha condiviso le sue idee ha comunque trovato infinite occasioni di arricchimento e di meditazione, e non solo a livello musicale.

Ha continuato a comporre fino agli ultimi giorni[10], anche se con scarse speranze di veder eseguita la sua musica, se non da amici e allievi: la composizione è sempre stata per lui un bisogno irrinunciabile d’espressione, un atto d’amore, come chi gli è stato allievo l’ha sentito più volte ripetere.

Prosperi e Bonamici decisamente si intendevano. Carlo Prosperi non era un docente che sceglieva la facile via di imporre agli allievi la sua visione artistica: alla sua scuola, al contrario, si era molto liberi, si era, anzi, incoraggiati ad operare scelte stilistiche personali; l’allievo, al quale si rivolgeva come ad un vero e proprio compositore, sia pure “in erba”, era reso cosciente del dovere verso se stesso di fare il più possibile autonomamente le scelte di carattere espressivo.

Prosperi insegnava la tecnica, un compito che svolgeva con molta accuratezza ed esigenza. Alla sua scuola si studiavano con molto rigore gli stili del passato e i vari aspetti tecnici, che costituiscono il necessario patrimonio di ogni buon compositore, che deve essere artista sì, ma anche artigiano – il contrappunto modale, l’armonia classico-romantica, la sua evoluzione fino all’abbandono del sistema tonale e alla conquista della serialità, l’equilibrio delle parti, la strumentazione –.

Un aspetto su cui alle sue lezioni si insisteva molto riguardava l’acquisizione da parte dell’allievo degli equilibri formali e si capiva che la composizione non risponde all’immagine stereotipata del “genio e sregolatezza”, tanto cara a certa letteratura, ma è un gioco di equilibri fra l’invenzione e la rielaborazione, una sorta di partita a scacchi con l’attenzione dell’ascoltatore, che deve essere mantenuta sempre viva. Un “cimento dell’armonia e dell’invenzione”, parafrasando Vivaldi: estro artistico, sì (l’invenzione), ma fondato su solide basi tecniche, di logica discorsiva (l’armonia).

Prosperi voleva che l’allievo capisse il processo culturale che faceva sì che nascesse in lui la necessità di scelte di un certo tipo, piuttosto che di un altro. E voleva che questo processo di maturazione avvenisse attraverso la fatica dell’atto della composizione nei vari stili, e solo in un secondo momento attraverso l’analisi delle opere dei grandi autori. Non aveva simpatia per coloro che pretendevano di concentrare la loro azione didattica solo sull’analisi. Per lui qualunque acquisizione, anche di fattori estetici, doveva partire dall’interno, dall’esperienza diretta con i “materiali” del far musica. Altrimenti, diceva, si sarebbero rischiati una conoscenza incompleta e un discorso vuoto, non poggiato sul concreto.

Come si è detto, cercava di non sovrastare mai l’allievo su questioni di carattere espressivo, e qui era la grandezza del maestro, ma non si pensi che accettasse tutto indiscriminatamente: Prosperi discuteva, diventava anche tagliente, quando l’allievo gli proponeva qualcosa di ineseguibile, o quando il pezzo appariva in contraddizione con se stesso (un effetto aleatorio con tutte le note, per esempio) o quando si accorgeva che il giovane autore non aveva capito ciò che lui stesso aveva scritto. D’altra parte il lavoro di composizione è soprattutto esercizio di astrazione, di immaginazione: un effetto, una frase, un impasto strumentale devono essere pensati e poi tradotti in segni, tenendo conto di una serie infinita di dati, dall’interazione fra le parti alla destinazione strumentale, fino alla comprensibilità della scrittura da parte degli esecutori.

L’insegnamento di Prosperi, insomma, è scuola di libertà, non di anarchia,  e Bonamici instaura con il maestro un rapporto di stima, di ammirazione che si protrarrà anche oltre il termine degli studi in Conservatorio. I due si incontreranno spesso, quasi settimanalmente per il perfezionamento degli studi, sì, ma anche solo per il piacere di parlare di progetti musicali.

Scrive ancora Prosperi:[11]

“Bonamici conseguì il diploma di Composizione nel 1973; ottenuto il titolo egli volle continuare il suo studio con me, per approfondirsi nella composizione e perfezionarsi nella strumentazione. Nacque allora un rapporto di amicizia e di affetto ed ebbi modo di conoscere a fondo la personalità di Giuseppe, sia sotto l’aspetto musicale, come quello umano”.

     I lavori atonali.

La prima composizione nello stile atonale è Tre movimenti per pianoforte del 1968. Questo lavoro può essere considerato la prima esperienza di ricerca di uno stile autonomo. Una composizione, questa, alla quale l’autore era particolarmente affezionato, tanto è vero che dopo otto anni, nel ’76, sente il bisogno di perfezionarne la scrittura pianistica. L’articolazione della melodia fra mano destra e sinistra viene così definita e distribuita su tre o quattro pentagrammi.

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In questo lavoro compare un elemento che apporta una nota di esasperazione drammatica: l’insistenza sui registri estremi della tastiera, una scelta che nella composizione successiva, la Meditazione prima per pianoforte del 1969, appare decisamente attenuata.

Un particolare degno di nota è che la serie dodecafonica della Meditazione prima  è la stessa dei Tre movimenti.[12]

Della Meditazione prima esiste anche una trascrizione orchestrale, incompiuta, sotto il titolo di Elegos. E’ una caratteristica di Bonamici quella di tornare più volte sulla stessa composizione o sullo stesso frammento. Talvolta è la stessa cellula melodica ad essere riproposta in nuove composizioni, altre volte è una serie dodecafonica ad essere riutilizzata. È evidente che Bonamici non considera esaurito il potenziale comunicativo di elementi già usati, e non esita a riproporli in contesti diversi. Si ha comunque l’impressione di un atto creativo sempre travagliato, alla ricerca spasmodica di un ideale di perfezione, e che certi frammenti quasi lo ossessionino, e che si riaffaccino addirittura con prepotenza, imponendosi in più composizioni.

I successivi lavori, la Canzone prima per flauto solo del 1969 nella quale è riconoscibile una tripartizione della forma, e la Meditazione seconda per pianoforte del ’72, benché pezzi autonomi, potrebbero essere anche considerati studi preliminari per giungere alla composizione della Canzone prima per flauto e pianoforte del 1974.

Fra questi lavori si inseriscono tre brani scoperti fra il materiale non depositato, durante un lavoro sui manoscritti effettuato durante i primi mesi del ’98. La datazione non è precisa, ma dovrebbero risalire al periodo ’69-’72 essendo stati rinvenuti in un quaderno in cui compaiono queste due date. E d’altra parte anche considerazioni di carattere stilistico, soprattutto per ciò che riguarda la scrittura pianistica portano la datazione a quel periodo.[13]

La prima di queste composizioni, che sono state eseguite in prima esecuzione assoluta a Pisa nell’ottobre del 1998, è intitolata Tre movimenti ed è dedicata al flauto solo.[14] E’ articolata in tre tempi – allegro vivace, adagio cantabile, allegro energico – ed è d’impianto seriale.

La seconda e la terza sono due pezzi per canto e pianoforte[15] intitolati Nirvana e Sogno. Il testo è tratto da due liriche giapponesi. Di Nirvana è stata ritrovata anche un’altra versione, differente dalla prima, in alcune soluzioni tecniche più evolute riguardanti la parte pianistica. E’ verosimilmente una versione successiva e per questo motivo è stata scelta per l’esecuzione.

Il rispetto della serie scelta fa sì che la parte del canto, sia in Nirvana che in Sogno proceda in modo piuttosto strumentale, più che vocale. Forse è anche per ovviare ad un andamento un po’ impervio che l’autore utilizza più volte il glissato nella parte del canto per riempire alcuni intervalli che potrebbero risultare difficili per l’esecutore. Le composizioni sono molto brevi (16 battute Nirvana  e 18 battute Sogno) e questo motivo, nonché la loro collocazione sia musicale che testuale, porta a pensare che probabilmente sono state scritte per essere eseguite una di seguito all’altra.

Dopo questa serie di brani da camera, Bonamici approda ad una composizione dedicata ad un insieme corale. Si tratta della Lirica corale per coro misto a cappella, del 1973 sulla poesia di Ku K’uang, poeta cinese vissuto nell’ottavo secolo, intitolata “Nel palazzo imperiale”. E’ l’unico brano del catalogo ancora in attesa della sua prima esecuzione. Questo è dovuto in gran parte alle difficoltà tecniche che il pezzo presenta, benché l’autore abbia saputo smussarle in gran parte, grazie ad una notevole maestria di scrittura. Rimane però un pezzo oggettivamente difficile, anche perché il canto non è sostenuto dalla presenza di strumenti. Dopo un inizio a quattro voci, le sezioni corali si dividono fino a terminare con le voci femminili divise in ben 14 parti.

La produzione del 1973 termina con la Canzone seconda per flauto solo. Il brano presenta tre elementi ben diversificati melodicamente e viene condotta in maniera fluente e priva di senso drammatico.

Il Notturno per cinque strumenti (pianoforte, clarinetto, due violini e contrabbasso), del ’74, di brevissima durata, è in sostanza una rielaborazione, una trascrizione per organico diverso, del secondo dei Tre movimenti per pianoforte. Le ridotte dimensioni e la dimensione rielaborativa hanno suggerito ad Arduino Gottardo, che ne curò la prima esecuzione nel 1984, di aggiungere una parziale trascrizione della Meditazione per pianoforte. Da allora il brano è stato sempre eseguito sotto questa forma.

La Canzone terza per flauto solo, ancora del 1974 è uno dei brani dedicati a Carlo Prosperi. L’incipit è costituito da un breve messaggio tematico basato sull’intervallo di quarta giusta, che si ritrova prima della parte finale e che sarà utilizzato ancora per Quando il vento racconta sulle antiche pietre.

L’ultimo brano del 1974 è la Canzone prima per flauto e pianoforte, che, come si è già accennato attinge i materiali tematici da due brani di alcuni anni prima: la Meditazione prima per pianoforte e la Canzone prima per flauto solo.

Il 1976 comincia con la revisione dei Tre movimenti per pianoforte solo del ’68 e prosegue con la composizione della Canzone seconda per flauto e pianoforte. Anche qui assistiamo ad una riutilizzazione di elementi già impiegati in altre composizioni, nella fattispecie di materiali tematici provenienti dalla Canzone seconda per flauto solo.

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Quando il vento racconta sulle antiche pietre, ancora del 1976, è l’ultimo brano per pianoforte. E’ l’unico pezzo strumentale del catalogo a possedere un titolo descrittivo. Il richiamo immediato è a certi brani debussyani (per esempio Ce qu’a vu le vent d’ouest, il settimo preludio del primo libro). Di questo brano abbiamo due versioni: la prima, – incompiuta – del ’75 per 2 pianoforti, la seconda, di un anno dopo, per pianoforte solo. Bonamici infatti aveva cominciato la stesura di un brano intitolato semplicemente – come leggiamo su un manoscritto – Musica per due pianoforti ma a lavoro inoltrato ne aveva abbandonato la composizione. L’aveva  ripresa l’anno successivo per dedicarla al solo pianoforte. La versione per 2 pianoforti sarà portata a termine da Carlo Prosperi nel ’79. Il primo messaggio tematico del brano è costituito da un tremolo sull’intervallo di quarta giusta, subito riproposto un’ottava aumentata sotto. Questo elemento, di sapore interrogativo e in qualche modo, arcano, è, come si è detto, lo stesso che troviamo all’inizio della Canzone terza per flauto solo.

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Come in questo brano, anche in Quando il vento racconta sulle antiche pietre l’elemento si incontra di nuovo prima della fine. Un particolare degno di nota è costituito dall’inserimento, nel centro della composizione, di una melodia gregoriana, del frammento “Sancta Maria ora pro nobis”.

Tiento, per chitarra, datato 31 dicembre 1977 è l’ultimo brano completo del catalogo. Il titolo evoca una forma strumentale spagnola fiorita fra il ‘500 e il ‘700 analoga al ricercare italiano, dove l’interesse del compositore era indirizzato allo sfruttamento di una determinata caratteristica tecnica, oppure allo svolgimento di un’idea melodica.

Non si hanno notizie sul perché Bonamici abbia intitolato Tiento questo pezzo, e neanche l’analisi si rivela di grande aiuto, in quanto il brano non presenta attinenze con l’antica forma strumentale. Forse si può azzardare l’ipotesi che Bonamici abbia voluto, con un gioco di parole, enunciare la sua personale ricerca alla conquista della difficile scrittura chitarristica. Chi è compositore sa bene che la chitarra – insieme al pianoforte – è fra gli strumenti che pongono maggiori problemi di scrittura per chi non sia anche esecutore di quello specifico strumento.

Legato a questo brano è un amaro elemento biografico: fa una certa impressione leggere in fondo al manoscritto la data del 31 dicembre 1977, il giorno del suo ricovero ospedaliero. Da allora non tornò più a casa; morì dopo due mesi e mezzo, il 18 marzo 1978.

     L’indagine sui manoscritti.

Nella prima metà del 1998 è stato condotto un lavoro di ricerca sui manoscritti, nel tentativo di trovare il testo di una delle ultime composizioni, forse proprio l’ultima, intitolata Orsù fanciulle, rimasta incompiuta. Il brano, nel manoscritto, completo della parte musicale – l’ultima battuta è verosimilmente quella finale – si presenta con l’indicazione enigmatica dell’organico: “due voci femminili e strumenti”: Non è specificato se sono necessarie due cantanti soliste o se l’autore si riferisce a due parti corali né, per ciò che riguarda la parte strumentale se si è pensato ad un’orchestra o ad un gruppo da camera. Il manoscritto consultato dà l’impressione di una “bella copia” di un pezzo, sia pure da strumentarsi in un secondo momento – la parte strumentale risulta affidata  al solo pianoforte –, dove le parole del canto, evidentemente destinate ad essere ricopiate per ultime, manchino per una causa contingente che ha interrotto il lavoro.

Durante la ricerca sono stati presi in esame tutti gli appunti, sono state lette tutte le pagine di musica, anche quelle che sembravano, a prima vista, meno significative; perfino i fogli sparsi che la famiglia ha conservato. Va ricordato infatti che i manoscritti presenti presso la biblioteca del Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze – grazie alla donazione da parte della famiglia del compositore – sono ovviamente solo le versioni definitive dei brani conosciuti.

Il testo di questo brano non è stato trovato,[16] anche se alla fine sono stati rinvenuti indizi che hanno portato ad individuare il tema letterario in un episodio biblico tratto dal libro di Giuditta. In effetti alcuni versi, alcuni frammenti che potrebbero aver fatto parte del testo sono stati trovati, ma il confronto ritmico con la parte del canto non ha permesso di pronunciare la parola definitiva. Ancora meno proficua la ricerca di indicazioni riguardanti l’organico strumentale. Su quest’ultimo punto sembra plausibile pensare che Bonamici non avesse fatto ancora le sue scelte, ma lo stesso non si può dire per ciò che riguarda il testo: nessun compositore infatti, trascriverebbe mai una parte di canto, con la sua ben precisa articolazione ritmica, per un testo non ancora formulato.

Il lavoro di ricerca, comunque è stato tutt’altro che infruttuoso perché sono venuti alla luce altri elementi molto importanti: sono state rinvenute prime stesure di composizioni che poi hanno avuto altro titolo o altre soluzioni tecniche nella versione definitiva. Ma ciò che è ancora più importante è stato il rinvenimento di altre tre composizioni complete, compiute – i Tre movimenti per flauto solo e le due liriche per canto e pianoforte Nirvana e Sogno di cui si è parlato poc’anzi – che non erano mai state inserite nell’elenco delle sue opere, nonché una composizione poetica senza titolo, di nove versi, anch’essa sconosciuta fino ad ora. Viene così ad arricchirsi un catalogo che per forza di cose, vista la brevità della parabola artistica e umana di questo compositore, è piuttosto ristretto.

 

     La produzione poetica.

Giuseppe Bonamici ci ha lasciato anche 51 composizioni poetiche, includendo nel numero anche quella senza titolo e senza data rinvenuta durante il lavoro di ricerca dei mesi passati.

Si tratta di brevi poesie[17] – alcune sono state composte durante i periodi di vacanza alla Verna e risentono di un clima di dolce misticismo – che si collocano, almeno per la maggior parte, in un arco di tempo che va dal 1961 al 1967. E’ interessante confrontare questo dato con la produzione musicale: dopo l’Ave Maria del ’56 e l’esperienza del ’64 – le Tre liriche per canto e pianoforte su testi pascoliani – non si hanno composizioni fino al ’68, l’anno che abbiamo preso come decisivo punto di partenza dello stile maturo di Bonamici.

Ecco che questi versi vengono ad assumere un alto valore personale poiché testimoniano della sua necessità di produrre, di creare, di esprimersi artisticamente, necessità – a livello musicale – tenuta in qualche modo “compressa” in quegli anni di studio della composizione.

Il peso artistico delle poesie naturalmente non è paragonabile a quello delle musiche, ma non per questo si pensi ad una produzione priva di qualità.

Scrive Sergio Pernigotti[18] in proposito:

“Sarebbe far torto alla più autentica natura di musicista di Giuseppe Bonamici pretendere di porre queste sue opere in versi sullo stesso piano della sua produzione musicale. […] Le poesie che Giuseppe Bonamici ci ha lasciate risentono molto delle sue letture, come è ovvio per chi non è stato un poeta e un letterato “di professione”: il suo linguaggio poetico riflette in maniera molto evidente una serie di influenze eterogenee che vanno da Pascoli […] a Montale, passando via via attraverso motivi e movenze proprie di Ungaretti, Cardarelli, Quasimodo e forse altri ancora. […] Tuttavia, se nessuno ha la pretesa di scoprire un poeta che si collochi accanto e sullo stesso piano del musicista, la lettura dei versi di Giuseppe Bonamici non è affatto inutile né priva di interesse, per quello che essa ci consente di scorgere della sua personalità che nella musica sia rimasto in qualche modo inespresso o, al contrario, per  la conferma che può portare a quanto è già ben avvertibile attraverso la lettura delle pagine musicali”.

Nel ciclo di concerti per il ventennale della scomparsa del maestro, si è comunque voluto testimoniare dell’esperienza poetica di Bonamici – un aspetto ancor più inesplorato e sconosciuto della sua dimensione artistica, anche se qualche sua poesia è stata premiata in alcuni concorsi e pubblicata su antologie ad uso scolastico – e si scelto di farlo attraverso la musica, il suo mezzo primario di espressione.

Per questo il motivo sono stati commissionati due brani[19] per i quali i compositori sono stati invitati ad attingere ai testi di Bonamici. Sono nati così Canti in versi di Paolo De Felice, dove i cinque testi poetici sono stati trattati con la voce cantante e Dromos, di mia composizione, dove, al contrario, le poesie sono affidate integralmente alla voce recitante. La prima poesia di Dromos è quella senza il titolo, cui si è accennato prima, rinvenuta durante il lavoro di ricerca sui manoscritti.

 

Se l’arte crea l’arte

i morti non svaniscono,

il canto interrotto

riprende vigore.

Carlo Deri

Compositore, pianista e didatta.

Dal 1983 si è occupato dell’organizzazione della Scuola di Musica “Giuseppe Bonamici” di Pisa, divenendone direttore dal 1986. Insegna presso il Liceo Socio-Psico-Pedagogico “E.Montale” di Pontedera.

catalogo delle opere di Giuseppe Bonamici (28.11.36-18.3.78)

1. Ave Maria per coro (o violino) e organo (1956)
2. Tre liriche per canto e pianoforte (1964)
3. Tre movimenti per pianoforte (1968)
4. Meditazione prima per pianoforte (1969)
5. Canzone prima per flauto solo (1969)
6. Tre movimenti per flauto solo (s.d., probabilmente. del 1969, o comunque nel periodo ’69-’72)
7. Nirvana per canto e pianoforte (s.d., c.s.) (in altro ms: lirica giapponese)
8. Sogno (lirica giapponese) per canto e pianoforte (s.d., c.s.)
9. Meditazione seconda per pianoforte (1972)
10. Lirica corale per coro misto (1973)
11. Canzone seconda per flauto solo (1973)
12. Notturno per cinque strumenti (1974)
13. Canzone terza per flauto solo (1974)
14. Canzone prima per flauto e pianoforte (1974)
15. Tre movimenti per pianoforte (1976) [revisione del brano omonimo del 1968]
16. Canzone seconda per flauto e pianoforte (1976)
17. Quando il vento racconta sulle antiche pietre per pianoforte (1976)
18. Tiento per chitarra (1977)
19. Quando il vento racconta sulle antiche pietre per 2 pianoforti (1975, incompiuto; terminato nel 1979 da Carlo Prosperi)
20. Orsù fanciulle per 2 voci femminili e strumenti (incompiuto: mancano il testo e la strumentazione)
21. Elegos per orchestra [trascrizione. della Meditazione prima] (incompiuto: mancano 5 battute)

[1]    Giuseppe Bonamici musicista pisano, a cura di Sergio Pernigotti, Pisa 1987.

[2]    E non ci si riferisce solo al pubblico dei musicofili, ma all’ambiente musicale fiorentino in generale: non si pensi che, anche fra i musicisti professionisti, che tutti accettino o abbiano, come minimo, l’umiltà di prendere in considerazione i lavori non si dice d’avanguardia, ma anche semplicemente al di fuori della concezione tonale. Ancora a metà degli anni ottanta, due esponenti del mondo musicale fiorentino “che conta” – si badi bene, non due sprovveduti: lui pianista del “Comunale”, e lei cantante lirica con carriera a livello internazionale, e tutti e due ben oltre la cinquantina – mi dissero senza mezzi termini, (e con il tono di chi non ammette replica!), che la musica contemporanea (in toto!) era una produzione scadente e che, in fin dei conti, poteva avere una sua dimensione solo nel il cinema, per sottolineare scene cariche di particolare tensione, di thrilling…! (si era ad una cena in casa mia e posso assicurare che non avevano bevuto più del lecito).

[3]    Per dirne una, pare che di tutto il gruppo solo Alvaro Company possedesse un registratore con il quale poter effettuare riprese da quelle poche esecuzioni che la radio mandava in onda.

[4]    Gli Internationale Ferienkurse für neue Musik (Corsi estivi internazionali per una nuova musica) furono creati dal musicologo Wolfgang Steinecke nel 1946. Intorno agli anni ’50 hanno costituito uno dei principali punti di riferimento della musica contemporanea: oltre ad un vasto numero di giovani compositori provenienti da tutte le parti del mondo, vi hanno fatto le prime esperienze musicisti come Maderna, Stockhausen, Boulez, Nono, Berio, Pousseur.

[5]    Si deve segnalare, tuttavia, che sulla paternità del concetto dodecafonico si sono avute polemiche. Il compositore, violinista e pittore ucraino Jefim Golyscheff aveva compiuto tentativi atonali già nel 1914, componendo un Quartetto  con strutture di carattere seriale, e anticipando quindi Schönberg di diversi anni: i primi lavori schönberghiani ritenuti coscientemente dodecafonici, infatti, sono del ’21-’23 (la Suite  per pianoforte op. 25 e l’ultimo dei Fünf Klavierstücke  per pianoforte op. 23, il Walzer). Da citare inoltre il compositore e teorico austriaco Fritz Heinrich Klein che nel 1921 aveva composto, per pianoforte a 4 mani, Die Maschine-Eine extonale Selbstsatire.. Ma d’altra parte anche i due più illustri allievi di Schönberg – Alban Berg e Anton Webern – avevano già composto lavori che anticipavano il procedimento dodecafonico (Berg due Lieder dell’op.4, Webern un Lied dell’op.12), pur non facendo niente per reclamare un qualsiasi diritto di priorità. Dal punto di vista teorico, parallelamente al maestro viennese, anche altri si erano orientati verso la ricerca di un metodo che portasse al distacco dal concetto di tonalità. Fra questi Joseph Mathias Hauer (studi del 1911, anche se la pubblicazione del saggio Vom Wesen des Musikalischen  è del 1920), Ferruccio Busoni (Cenni di una nuova estetica musicale, pubblicato in tedesco nel 1907 e in italiano nel 1913, in cui rimarca la necessità storica di affrancarsi sia dal sistema delle scale che dall’uso degli strumenti tradizionali, che impediscono l’evoluzione della musica – folgorante intuizione di un “grande”, sia musicista che pensatore, sulle possibilità di supporti elettronici? –) e Domenico Alaleona (I moderni orizzonti della tecnica musicale. Teoria della divisione dell’ottava in parti uguali  e L’armonia modernissima, due saggi pubblicati sulla “Rivista Musicale Italiana” rispettivamente nel 1910 e ne 1911, ma concepiti già nel 1908).

[6]    Carlo Prosperi, L’atonalità nella musica contemporanea, Caltanissetta-Roma, 1957

[7]    Dalla commemorazione nel primo anniversario della morte, riportato in Sergio Pernigotti, Giuseppe Bonamici musicista pisano, op. cit.

[8]A questo proposito Renzo Cresti, nella prefazione al suo lavoro su Prosperi (Carlo Prosperi, Lucca 1993), scrive:

[…] figura eminente di musicista e didatta, ma misconosciuta dall’apparato ufficiale, dalla nomenklatura musicale più interessata agli aspetti politici ed economici che a quelli culturali. […] la critica musicale in modo vergognoso si è quasi del tutto disinteressata della produzione di Prosperi: ci si interessa soltanto dei musicisti che appartengono a certi clan.”

[9]    L’Arte, alla quale si rapportava con un rispetto, a dir poco, religioso, era vissuta da lui in una dimensione ideale, eroica addirittura. Ricordo che nell’assegnarmi l’analisi armonica del Preludio del Tristano e Isotta  – che considerava un punto nodale nel cammino verso l’abbandono della tonalità – mi rivelò che lui, da studente, quello stesso lavoro l’aveva fatto in tempo di guerra, rimanendo in casa durante l’infuriare di un bombardamento, incurante per la propria incolumità, tanto era stato coinvolto da quella pagina wagneriana.

[10]  La musica di Prosperi è stata pubblicata per la massima parte da Suvini Zerboni e Ricordi; incisioni discografiche si trovano nei cataloghi RCA, Diapason, Classico Records, Eterdon T.C.R.

[11]  Sergio Pernigotti, Giuseppe Bonamici musicista pisano, op. cit.

[12]  cfr. esempio.2

[13]  Naturalmente quando si parla di “scrittura” in senso componistico, non ci riferisce alla grafia, ma alla maniera con la quale un compositore traduce in forma strumentale un’idea musicale; ci si rivolge, insomma, alla dimensione artigianale dell’atto compositivo, in special modo alla gestione delle parti e alla loro coerenza con le caratteristiche degli strumenti o delle voci.

[14]  Giuseppe Bonamici, Tre movimenti, per flauto solo; prima esecuzione: Pisa, 11 ottobre 1998; Alessio Bacci, flautista.

[15]  Giuseppe Bonamici, Nirvana e Sogno, per canto e pianoforte; prima esecuzione: Pisa, 11 ottobre 1998; Sarina Rausa, soprano, Paolo De Felice, pianista.

[16]  Il pezzo è stato ugualmente eseguito nell’ottobre scorso, nel ciclo delle manifestazioni per il ventesimo anniversario della scomparsa di Bonamici, ma in forma strumentale, in una trascrizione di Paolo De Felice – ottimo conoscitore della produzione di Bonamici con il quale ho svolto il lavoro di ricerca sui manoscritti, a cui vanno i più sinceri sentimenti di gratitudine per la competenza, l’impegno e la cura spesi in quest’opera –, che ha scelto un organico articolato in cinque strumenti: clarinetto, due violini, violoncello e pianoforte.

[17]  Le poesie sono pubblicate in Sergio Pernigotti Giuseppe Bonamici musicista pisano, op. cit.

[18]  Sergio Pernigotti, Giuseppe Bonamici musicista pisano, op. cit.

[19]  Paolo De Felice, Canti in versi per soprano, flauto, clarinetto, due violini, violoncello, chitarra e pianoforte; prima esecuzione (parziale): Firenze, 10 maggio 1998; prima esecuzione integrale: Pisa, 11 ottobre 1998;

Carlo Deri, Dromos, per voce recitante, flauto, clarinetto, due violini, violoncello, chitarra e pianoforte; prima esecuzione: Pisa, 11 ottobre 1998.