Commedia dell'ArteIntorno alla metà del ’500, in Italia si assiste, nel Teatro, ad un avvenimento completamente nuovo: la nascita della “Commedia dell’Arte”.

Questo fenomeno, che avrà fortuna per più di un secolo (ma arriverà fino al Goldoni) nasce come reazione a un certo teatro erudito che non poteva avere presa sul grosso pubblico.

La Commedia dell’Arte è un fenomeno che non viene creato da una cerchia di eruditi letterati, ma che ha vita “da quelli che vivono economicamente del Teatro e quindi hanno bisogno del successo di pubblico e di cassetta: gli attori”.[1]

Al suo nascere questa manifestazione teatrale ha avuto molte definizioni (Commedia italiana, buffonesca, istrionica, ecc.), ma quella che è poi passata alla storia, Commedia dell’Arte, è quella che più chiaramente precisa la sua matrice: Commedia dell’Arte vuol dire commedia del mestiere degli attori, e in tre parole ne definisce uno degli aspetti più importanti, quello cioè di essere creata, come già detto, dalle stesse persone che recitano.

Le prime compagnie di comici dell’Arte le troviamo in Italia settentrionale, specie a Venezia e dintorni (e infatti le prime ambientazioni teatrali sono veneziane e padovane), ma subito questo teatro si dirama in tutta Italia e ben presto ne valica i confini arrivando praticamente in tutta Europa, soprattutto in Francia e in Inghilterra. (Da ricordare che i Comici, quando vanno all’estero, non mutano il loro linguaggio, ma continuano a recitare in italiano e in dialetti italiani. Ciò nonostante la loro fortuna davanti ad un pubblico che evidentemente non comprende la loro lingua, non è minore. La stessa cosa è successa ad un grande attore e autore del nostro secolo, Eduardo de Filippo, che ha portato all’estero le sue commedie riscuotendo notevoli successi, pur continuando a recitare in dialetto napoletano).

Improvvisazione.

L’aspetto tecnico più importante e più nuovo di questo Teatro era l’assoluta mancanza di un testo scritto – a parte poche righe che servivano di indicazione per la trama e le entrate dei vari personaggi (canovaccio) – e quindi l’enorme spazio dedicato all’improvvisazione. Ogni attore, cioè, improvvisava la sua parte e non si basava su un testo scritto composto da un autore. L’attore era quindi autore al tempo stesso. Il termine improvvisazione non deve comunque ingannare: non si trattava solo di creazione estemporanea sulla scena, che pure esisteva, ma soprattutto di adattamento estemporaneo di un patrimonio di battute che ogni attore aveva accumulato in tanti anni di carriera. Si comprende quindi come ogni commediante finisse per specializzarsi in un ruolo e per tutta la vita impersonasse un unico carattere; così ogni Pantalone si faceva un proprio repertorio di consigli e di maledizioni verso il figlio, ogni Capitan Spaventa una collezione di spacconate, gli innamorati dialoghi di amore o corrisposto o contrariato o sdegnato e via dicendo. Oltre a questo patrimonio personale, l’attore aveva a sua disposizione “raccolte scritte, e anche stampate, di soliloqui, di tirate ad uso di ciascun personaggio. C’erano le prime uscite, i saluti le chiusette, ecc. in prosa ed anche in versi che ogni comico si teneva pronti per adattarli qua e là, in non importa quale commedia”.[2]

Livello culturale dell’attore.

È chiaro che queste persone dovevano avere, accanto ad un’intelligenza e ad un’immaginazione molto pronte anche una grande cultura. Dovevano, per esempio conoscere a perfezione la mitologia classica e quindi oltre agli autori antichi anche i moderni che ad essa spesso si rifacevano (vedi dramma pastorale). Non dimentichiamo che il loro pubblico era di estrazione socio‑culturale molto varia. Poteva accadere, sì, di recitare nella piazza in un giorno di mercato, ma anche di lavorare in una corte davanti al pubblico degli eruditi che gravitavano attorno a un Signore. Dice A. Nicoll: “Gli attori dovevano studiare, e molto, ma invece di leggere drammi leggevano i migliori libri del tempo, specialmente quelli che avrebbero potuto essere familiari al tipo di personaggi che rappresentavano”. E più oltre: “Oggi nessuno si aspetta che un critico, nell’illustrare al pubblico i meriti di una nuova attrice, citi, a prova della sua bravura, il fatto che è iscritta a società letterarie; eppure fu precisamente ciò che fece Nicholas Boindin dando il benvenuto a Parigi, nel 1716 ad Elena Balletti. Questa, scriveva, è una donna di grande spirito e una bravissima attrice: una prova della sua intelligenza è il fatto che è stata considerata degna dell’elezione a quattro accademie, a Roma, Ferrara, Bologna e Venezia. Ne concludeva che la sua capacità d’improvvisazione doveva essere eccezionale.”[3]  Fu comunque col tempo che le varie accademie di eruditi finirono per riconoscere ai comici dignità culturale e in alcuni casi anche aperta ammirazione. “Tipica la dichiarazione della famosa Accademia degli Intronati di Siena, secondo cui l’attrice Vincenza Armani nei suoi discorsi improvvisati componeva meglio di quanto sapessero fare i più abili scrittori seduti al tavolino.”[4]

Il canovaccio.

Il filo conduttore della commedia, si è già accennato, era contenuto nel cosiddetto canovaccio. Questo conteneva la trama e le entrate degli attori e spesso consisteva in un unico foglio che al momento della recita il capocomico affiggeva dietro la scena, in modo che ogni attore, entrando e uscendo dal palcoscenico, gli desse un’ultima occhiata. Per avere un’idea di come era fatto un canovaccio bastino queste poche righe stralciate da uno dei tanti che hanno per soggetto la storia di Don Giovanni (dall’atto 1°).[5]

DON PIETRO, AMBASCIATORE DI SPAGNA

Re gli dice che, a voce di una Dama, è uscito per le camere, e colui che l’ha violata gli ha smorzato il lume, e gli ordina che cerchi chi è, et entra. Ambasciatore chiama i suoi.

CORTE

fanno la solita scena e via.

ZACCAGNINO

con lanterna, nasconde la mala vita che egli mena con Don Giovanni, e l’ordine avuto di trovarsi a Palazzo; fa diversi lazi di sonnolenti.

In questo

DON GIOVANNI

fa lazi di volerlo ammazzare, lui si scopre per paggio.

Verso la fine della loro carriera alcuni fra i principali attori vollero lasciare delle commedie scritte che altro non sono se non canovacci svolti, rappresentazioni-tipo costituite dalle migliori battute e dai migliori dialoghi assommatisi nella loro memoria durante tutto l’arco della loro carriera.

I Personaggi.

Con la Commedia dell’Arte viene messo in luce un aspetto fondamentale del Teatro di tutti i tempi. Dall’antichità in poi, attraverso centinaia di opere differenti ci si incontra con un certo numero di personaggi che si assomigliano fra loro. La Commedia dell’Arte, come dice il D’Amico[6], ha il coraggio di dichiarare sfacciatamente che i personaggi erano sempre gli stessi. Nascono cosi le Maschere: personaggi immutabili inseriti, però, in situazioni sempre differenti.

Le maschere principali sono quattro: il Magnifico, che poi sarà Pantalone, il dottor Graziano (poi dottor Balanzone), il Capitano spagnolo (Capitan Spaventa, Fracassa, Spaccamonte, Bombarda,ecc.) e lo Zanni, il servo, che darà origine alle due maschere di Arlecchino e Brighella e con varianti, poi, a Pulcinella, fino ad arrivare in Francia a Pierrot e in Russia a Petruska.

Pantalon de’ Bisognosi è di solito un vecchio e ricco mercante, avaro, brontolone, gretto, a volte innamorato ridicolo e finisce immancabilmente sconfitto (paga Pantalone); è un po’ il simbolo del Potere economico. Il dottore è invece il simbolo del potere culturale, non della Cultura, tanto è vero che spesso i suoi discorsi sono infarciti di sfondoni madornali. Parla in dialetto bolognese (Bologna è stata definita”la dotta” grazie alla sua università) e indossa una toga nera. Il Capitano è il militare spaccone e spesso codardo, contrariamente all’immagine che vuole dare di sé. Il più delle volte parla un dialetto spagnoleggiante e simboleggia anche in questo il Potere militare.

Si può dire che il Capitan Spaventa e il dottor Balanzone rappresentano gli ipocriti della commedia dell’Arte. Generalmente questi tre personaggi, trionfatori nei loro rispettivi campi, sono nella commedia quelli che finiscono sconfitti. La rivincita verso i tre poteri, economico, culturale e politico-militare è palese.

I comici dell’Arte, così scanzonati e come si vede spesso irriverenti, hanno però lasciato da parte la satira verso il potere religioso. In tutta la Commedia dell’Arte non esiste il personaggio religioso che pure, specialmente in quegli anni, non sarebbe stato certo un soggetto privo di interesse. Ma la Chiesa incuteva troppo timore e i Comici hanno preferito non toccare l’argomento. Solo un politico, occasionalmente autore teatrale, ha avuto il coraggio di mettere in scena un frate: Machiavelli, nella Mandragola, e lo ha fatto in maniera addirittura spietata. Per dei comici che vivevano della propria “Arte”, senza alcuna protezione, sarebbe stato troppo pericoloso.

Come si vede le tre maschere di cui abbiamo parlato finora sono più o meno di derivazione classica, specialmente Balanzone (il Socrate delle Nuvole di Aristofane) e il Capitan Spaventa (Miles Gloriosus di Plauto).

Ancora più netta è la derivazione classica del Servo, lo Zanni.

Dapprima un solo Zanni, ma ben presto il personaggio si sdoppia (doppio Zanni) e i caratteri dei due servi si differenziano: uno sarà il servo furbo (Brighella di Bergamo alta, dove l’aria fina aguzza l’ingegno) e l’altro il servo sciocco (Arlecchino di Bergamo bassa).

Vestiti all’inizio di bianco Brighella aggiungerà dei fregi al suo costume fino a farlo diventare una livrea, Arlecchino invece a furia di rattopparlo con pezze di colori vistosi si troverà ad avere un vestito fatto interamente di toppe.

I due caratteri del furbo e dello sciocco concorrono alla creazione dello Zanni napoletano, unico a rimanere con il vestito completamente bianco: Pulcinella. “L’ideale di Pulcinella è il dolce far niente, i suoi sospiri sono per i maccheroni; Pulcinella si adatta a tutte le parti, compresa quella del ladro, truffatore, mezzano; s’ubriaca, si lascia bastonare, alle volte gli capita anche di peggio; in conclusione, è la confessione comica dell’abbandono popolaresco a tutti gli istinti compresi i peggiori e dei guai che ne seguono. Pulcinella ha tuttavia, per tirare avanti, un doppio segreto, parodia d’una ragione che ha dato all’Italia grandi musicisti e grandi filosofi: canta e prende il mondo con filosofia.”[7]

Tutti questi personaggi recitavano con la maschera sul volto.

Questa stava a sottolineare l’immutabilità e la mancanza ai crescita psicologica di ognuno di questi ruoli. Gli unici che non avevano la maschera erano gli innamorati e, a volte, la fantesca perché personaggi più universali e più reali, non legati ad un luogo d’origine preciso. Gli innamorati recitavano infatti in toscano letterario, mentre tutti gli altri parlavano i vari dialetti d’Italia o addirittura idiomi inventati, come par esempio il latino maccheronico o il già citato dialetto spagnoleggiante. Questi personaggi non erano comici, ma era dalla loro vicenda che scaturiva la comicità. Accanto a questi ruoli principali ve ne sono altri secondari: Scaramuccia (il secondo capitano), Tartaglia (della genìa degli Zanni), altri di contorno: principalmente servi e servette, ed altri personaggi generici come il marinaio, il bravo, gli sbirri, il contadino ecc.

L’azione scenica.

Queste commedie nella loro essenza si somigliavano un po’ tutte. Gli attori recitavano, in una scena di tipo serliano[8] con l’aggiunta di due case praticabili ai lati, sempre storie dove l’argomento fondamentale era l’amore e gli intrecci che questo fa scaturire. In ogni commedia, infatti, potevano sovrapporsi due, tre, quattro, fino a sei storie contemporaneamente. La chiusa era sempre movimentata (bastonature ecc.) e il lieto fine era d’obbligo. Si nota, anche in questo teatro, il ritorno di scene-tipo che mandano avanti l’azione quali ad esempio le scene notturne (gli attori, benché il palco fosse ben illuminato, fingevano di agire di notte), la lettura di lettere (magari finite nelle mani della persona sbagliata), i travestimenti (anche fra uomo e donna), tutti quegli espedienti,insomma, già utilizzati nel teatro di tutti i tempi e che avranno fortuna anche nella produzione teatrale posteriore, sia di prosa che musicale (si pensi, tanto per fare un esempio, ai libretti verdiani). La musica aveva una grande importanza. Ogni comico doveva saper cantare e suonare vari strumenti. Furono addirittura creati dei canovacci apposta per attori che erano particolarmente dotati nell’esecuzione musicale. Riporta il D’Amico: “Uno Scapino celebre, il Gabrielli, recitava uno scenario scritto apposta per lui, Gli strumenti di Scapino , in cui via via suonava il violino, la viola, il contrabbasso, la chitarra, il trombone, il mandolino, la tiorba, il liuto ed altri strumenti ancora.”[9]

Oltre all’abilità musicale era fondamentale anche una grande agilità atletica. La Commedia dell’Arte infatti è spettacolo popolare che riassume un po’ tutto ciò che ha sempre divertito il pubblico di ogni ceto sociale, anche quello meno colto: il motto arguto e anche sboccato, l’abilità nell’esecuzione strumentale e l’agilità dei saltimbanchi. Sull’abilità acrobatica dei Comici dice ancora il D’Amico: “Contorsioni e piroette, capitomboli e salti mortali erano il loro forte; e non dei soli uomini. Già nel 1567, in una lettera privata, si parla dei mirabili salti di un’attrice, di una amorosa che sosteneva il ruolo d’Angelica (a che proposito poi li facesse, non c’è dato saperlo con precisione). Lo Scaramuccia Fiorilli, a ottantatré anni, ancora distribuiva schiaffi agli interlocutori con la pianta del piede. L’arlecchino Visentini nella parte del servo di Don Giovanni nello scenario del Convitato di Pietra, davanti alla statua del Commendatore, faceva un salto mortale con in mano un bicchiere pieno di vino, senza rovesciare il vino. Lo stesso Visentini spaventava spettatori e spettatrici uscendo dal palcoscenico e correndo in giro sui cornicioni di tutta la sala.”[10]

Il passaggio fra la Commedia dell’Arte e l’Opera buffa è quindi piuttosto naturale: tutti gli ingredienti del nuovo teatro erano già più o meno presenti nelle recite dei comici.

È da ricordare inoltre che la Commedia dell’Arte ha esercitato una notevole influenza anche sul madrigale drammatico, benché quest’ultimo mancasse di azione scenica. “Spettacolo per le orecchie e non per gli occhi” dichiara Orazio Vecchi nel prologo del suo Amfiparnaso, che è praticamente una Commedia dell’Arte madrigalesca (Comedia harmonica) i cui personaggi sono le maschere tradizionali.[11]

Le compagnie.

La necessità di grande affiatamento fra i comici di ciascuna compagnia, e l’abitudine di non provare mai, forse per non perdere la freschezza del dialogo una volta sulla scena, obbligava gli attori ad una convivenza stretta fra loro unita, anche a causa dei continui viaggi, a un certo isolamento dal resto della società. Proprio per questi motivi la compagnia risultava spesso costituita da un gruppo familiare: si hanno così le famiglie di comici: i Biancolelli, gli Andreini, i Cecchini, ecc. Ogni compagnia si dava un nome. “…i nomi dati alle compagnie del XVI e XVII secolo – i Gelosi, i Desiosi, i Confidenti e così via sono chiaramente modellati su nomi analoghi adottati dalle società di dotti e letterati in varie città d’Italia”[12] . Nonostante i legami spesso di parentela, la vita di ogni compagnia non era comunque facile. Fra gli attori c’erano continue rivalità soprattutto professionali, ma anche amorose. “Bestemmie e minacce sanguinose erano all’ordine del giorno; ogni attore di primo piano si considerava più prezioso per la compagnia di tutti gli altri e voleva una quota maggiore degli incassi; gruppi rivali si formavano in seno alle compagnie e le tresche amorose aumentavano la confusione. Forse vicende del genere sono inevitabili in qualsiasi compagnia e in qualsiasi tempo; ma il numero e la violenza delle lamentele, delle confutazioni, delle accuse, delle minacce sono tali che a volte ci domandiamo come questa compagnie riuscissero a mandare in scena uno spettacolo.”[13] Fu necessario darsi un codice preciso di leggi. Fra le più importanti ricordiamo la norma per cui un attore non poteva inserirsi in un dialogo se il canovaccio non lo prevedeva e l’altra secondo la quale, quando entrava un terzo attore in scena, uno dei due già presenti doveva immediatamente ritirarsi in una posizione di secondo piano. L’inosservanza di queste regole portò a volte ad aspre diatribe e addirittura allo scioglimento di alcune compagnie. La prima compagnia che si costituisce con un regolare atto notarile è quella dei Gelosi nel 1575.

 

Carlo Deri, 1984


[1] Silvio D’Amico: Storia del Teatro drammatico, Garzanti, Milano, 1976

[2] S. D’Amico, op. cit.

[3] Allardyce Nicoll: Lo spazio scenico, Bulzoni, Roma, 1971.

[4] A. Nicoll, op. cit.

[5] cit. in Giovanni Macchia: Vita, avventure e morte di Don Giovanni, Bari, Laterza, 1966.

[6] S. D’Amico, op. cit.

[7] S. D’Amico, op. cit.

[8] Sebastiano Serlio (Bologna 1475 – Fontainebleau, 1554 circa), architetto e teorico dell’architettura. Instaura l’uso di un palco inclinato con scene realizzate in prospettiva e tridimensionali.

[9] S. D’Amico, op. cit.

[10] S. D’Amico, op. cit.

[11] Orazio Vecchi: L’amfiparnaso, comedia Harmonica a 5 voci, 1597

[12] A. Nicoll, op. cit.

[13] A. Nicoll, op. cit.

Questo studio è stato effettuato nel quadro delle attività relative all’esame di Letteratura Poetica e Drammatica. Firenze, Conservatorio “Luigi Cherubini”, 1984.